LA SCRITTURA al tempo dell’impero Romano

SUPPORTI SCRITTORII

IL PAPIRO E LE TAVOLETTE CON LA CERA.

Nelle scuole si usavano due tipi di materiali: le tavolette di legno ricoperte di cera e i fogli di papiro o pergamena.
Il papiro è sempre stato considerato il materiale scrittorio per eccellenza. Si è diffuso presso i Greci dal VI secolo a.C., ma è stato introdotto a Roma più tardi. Lo stelo di papiro era tagliato in strisce, che venivano stese affiancate su un piano, per poi disporvi sopra un secondo strato di strisce. I due strati costituivano un foglio di carta.

Le tavolette cerate si presentavano in varie dimensioni, di forma rettangolare, imbiancate con il gesso e ricoperte di cera. La cera aveva un colore piuttosto scuro, per questo venivano chiamate “le tavolette tristi”. Esse erano collegate tra loro per mezzo di una cordicella, fatta passare lungo dei fori esterni.

Questa superficie scrittoria veniva utilizzata sia per operazioni quotidiane (esercitazioni degli scolari, appunti degli uomini d’affari) sia per gli atti giuridici e amministrativi. Sono state ritrovate a Pompei, Ercolano, in Nord Africa.

LA PERGAMENA.

Il merito di aver scoperto la pergamena, ottenuta dalla pelle di pecora opportunamente lavorata, fu attribuito a Pergamo, città dell’Asia Minore: di qui il suo nome. Rispetto al papiro, la pergamena aveva il vantaggio di poter ricevere l’inchiostro su entrambi i lati, si prestava ad essere meglio disegnata e si poteva più facilmente correggere. L’inchiostro, fatto con acqua, resina, nero di seppia e fuliggine, era conservato in calamai portatili con coperchio.

LIBRI DI TELA.

Erano destinati originariamente a custodire testi sacri e liturgici, poi per la registrazione delle imprese degli imperatori.

STRUMENTI E ACCESSORI SCRITTORII

Sulle tavolette di cera, le lettere venivano incise con lo stilus (stilo di legno o di metallo, appuntito da una parte e appiattito per cancellare dall’altra).

Sulla pergamena o sul papiro si scriveva con il calamus, un bastoncino di canna con un’estremità appuntita da un temperino chiamato scalprum.

I calamai, oltre che di canna, potevano essere fatti di metallo; si tenevano legati in un fascio, oppure messi in un astuccio detto theca calamaria o graphiaria. Il calamo veniva bagnato nel calamaio, atramentarium, contenente l’inchiostro nero, antramentum; a volte c’era anche un vasetto per l’inchiostro rosso, cinnabaris. I calamai, di solito, erano in terracotta, di varie forme, con un buco al centro per il calamo. Tutti i calamai, anche quelli fatti con materiali più preziosi, avevano un coperchietto perché l’inchiostro non uscisse.

La stanza in cui veniva prodotto l’inchiostro era messa in comunicazione da un condotto con una stufa, dove veniva bruciata la pece (residuo nero della distillazione del catrame). Il fumo passava nella stanza e si depositava sulle pareti, formando una strato di fuliggine che si raschiava e si faceva seccare al sole. Così si otteneva un inchiostro solido, che, per essere usato, si doveva diluire con acqua. L’inchiostro rosso era ottenuto invece da un minerale. Questo colore era usato per scrivere sull’oro e per far risaltare le lettere incise. Nei libri veniva usato per scrivere il titolo, le lettere iniziali, le prime righe e le note. Esistevano anche inchiostri simpatici a base di latte: per leggere le lettere, bastava coprire la pagina con polvere di carbone. Per cancellare gli errori di scrittura si usava una piccola spugna bagnata, chiamata spongia deletilis. A volte, gli scritti che non venivano graditi venivano fatti cancellare con la lingua degli autori. Prima di procedere alla scrittura, si era soliti tracciare delle linee guida sulla carta e segnare i margini delle colonne con una rondella di piombo. Questa, insieme ad un compasso, serviva a squadrare il foglio, per prepararlo alla scrittura. La pietra pomice serviva a levigare gli orli del volumen, per evitare che si rompessero. I rotoli appartenenti ai più ricchi, avevano degli umbilici, cioè delle bacchette di legno o di osso, che venivano applicate alla fine del libro per facilitarne il riavvolgimento. Queste bacchette, a volte, erano ingrossate alle estremità colorate, alle quali venivano attaccati dei cartellini triangolari di identificazione, tituli, su cui veniva scritto il nome dell’autore e dell’opera contenuta nel rotolo. La carta che veniva usata per contenere un buon libro doveva essere di buona qualità, e subire un trattamento che ne consentisse la conservazione. Per questo i fogli, prima della scrittura, venivano spalmati con olio di cedro, per proteggerli dalla muffa, cosa che dava alle pagine un colore giallo.

LIBRI e BIBLIOTECHE

Anche i romani avevano i libri e i luoghi in cui conservarli: le biblioteche.La biblioteca era una grande sala nella quale i libri erano custoditi in scaffali o in appositi armadi.  I libri erano privilegio dei ricchi e la loro copiatura era affidata a schiavi, che scrivevano sotto dettatura, per far più copie dello stesso libro in una sola giornata. I libri, oltre ad essere fabbricati in casa, erano fabbricati in librerie. Queste biblioteche librarie non si trovano solo a Roma, ma anche nelle province, perché i libri erano molto diffusi. Uno stesso libro poteva avere varie edizioni, ovviamente a prezzi diversi: le più care erano soprattutto le opere rare o introvabili. Le meno care erano quelle che presentavano difetti, scritte su rotoli già utilizzati.

Le biblioteche si dividevano in pubbliche e private. Inizialmente erano solo private, sia perché i libri erano costosi, sia perché solo i ricchi erano istruiti (fino al I sec. a.C.). Lo spazio per la conservazione dei libri, poteva essere ricavato all’interno di opere pubbliche e religiose, e i portici venivano usati per la lettura.

IL VOLUMEN

Il “volumen” era il libro più diffuso presso i romani. Questo vocabolo si riferisce all’azione della lettura, che avveniva srotolando e avvolgendo un rotolo, chiamato appunto volumen, fatto di papiro o di pergamena. Questi rotoli contenevano scritti di privati cittadini, opere letterarie, testi di carattere amministrativo e di uso scolastico.  La lunghezza del rotolo raggiungeva al massimo 20 fogli, lunghi circa 12 metri. Dunque l’opera intera di un autore, era formata da più rotoli; questi, a loro volta, erano divisi in pentadi (cinque rotoli) e decadi (dieci rotoli). Il volumen veniva protetto dalla membrana, un foglio di pergamena che, incollato alla prima pagina del rotolo, lo avvolgeva tutto. La membrana era chiamata paenula o toga (entrambi questi termini si riferiscono al mantello usato appunto come copertura e riparo)

IL MANUALE

Dopo fu introdotto l’uso del manuale, un contenitore d’abete dove venivano riposti i rotoli. Nel trasporto i rotoli erano legati tra loro e venivano messi i cassette chiamate scrinia (rettangolari) o capsae (cilindriche).

IL CODICE

Nel IV-V sec. d.C., il volumen viene sostituito dal codice. Esso consiste in un testo scritto su una pergamena o su un papiro. La forma più comune del codice era il QUATERNIO, composto da 4 fogli. Quando però bisognava inserire altri fogli, questo metodo veniva modificato, perché formavano fascicoli in più. Poi venivano tracciate le linee per la scrittura. I fascicoli venivano cuciti verticalmente, rilegati e incollati alle tavolette. Il codice fu apprezzato per la maggior maneggevolezza e la capacità di contenere un testo più lungo rispetto al volumen ed infatti, alla fine dell’antichità, soppiantò completamente il volumen; per questo il codice, in poche parole, è l’antenato del libro moderno.

LA PUBBLICAZIONE

Dopo che lo scrittore aveva finito il suo libro, inizialmente le opere circolavano solo all’interno della casa, dove si correggeva il testo con l’aiuto di amici. Dopo la correzione si passava alla pubblicazione. Bisogna ricordarsi che, prima dell’invenzione della stampa (1460 circa), per diffondere un’opera, bisognava farla ricopiare a mano; a questo provvedevano i copisti. La copiatura era un lavoro lungo e faticoso e spesso produceva molti errori di trascrizione; alla fine del lavoro, i copisti segnavano il numero delle righe scritte e, in base a queste, venivano pagati.

Forse non tutti sanno che …

  • Anticamente si scriveva anche su piombo, su rotoli di stagno, su oro e sulle scapole dei buoi

  • In epoca imperiale gli alti funzionari usavano tavolette di avorio, ma erano molto diffuse quelle di scorza di tiglio

  • La carta di papiro era ricavata dal Cyperus Papyrus, erba della famiglia delle ciperacee, dall’alto fusto, diffusa in Siria, Palestina, Alto Nilo ed in Sicilia

  • Tre erano le qualità della carta di papiro: la charta regia (la migliore), la saitica (da Sais in Egitto), la commerciale

  • La cartapecora era diffusa fin dall’antichità, tanto è vero che si scriveva su pelli, oltre che di pecore, anche di capre, antilopi, serpenti, cani, montoni, vacche, maiali, gazzelle

  • La pergamena più fine era quella fatta con pelle di agnelli nati morti

  • Ovidio ricorda una pergamena purpurea, ma si menziona anche un esemplare dell’Iliade e dell’Odissea trascritto in lettere d’oro su pelle di serpente

  • Gli strumenti del copista erano: matita di piombo, compasso, regolo, temperino, calami, teca, calamaio

  • L’inchiostro era ricavato dalla feccia del vino seccata al forno, dalla combustione dell’avorio, dall’unione di due parti di gomma con polvere nera e acqua, dal nero della fuliggine, dal nero delle seppie (per i papiri); dalla noce di galla (per la pergamena); dal solfato di ferro (nel Medioevo)

  • Esisteva un inchiostro “simpatico”, fatto di succhi vegetali o di latte

  • L’inchiostro, oltre che nero, poteva essere rosso-giallo, porpora, verde, blu, d’oro